Afghanistan: i tappeti di guerra

Non ne comprerei mai uno anche se metterselo in casa equivarrebbe a “calpestare la guerra”: gesto simbolico ovviamente, ahimè ben poco efficace.  Sono i Tappeti di guerra, i Narche Jangi, che ho fotografato ad un mercatino dell’antiquariato.

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Le donne dell’Asia centrale hanno tessuto tappeti fatti a mano dal design intricato per migliaia di anni. Ma nel 1979, i tappeti cominciarono a cambiare radicalmente. L’invasione sovietica dell’Afghanistan devastò la regione. I suoi effetti hanno avuto un impatto così profondo sulla vita quotidiana che le donne in Afghanistan e quelle che vivevano come rifugiate in Pakistan e in Iran hanno iniziato a incorporare icone di guerra nei loro tappeti. Fiori, uccelli e nodi decorativi furono sostituiti da mitragliatrici, granate, elicotteri e carri armati in quelle che erano altrimenti tessiture tradizionali. Ne esistono anche che raffigurano il crollo delle Twin Towers e vengono considerati documenti storici con cui di volta in volta si sono celebrate vittorie, si è fatto proselitismo o protesta. Hanno stravolto la tradizione introducendo elementi moderni e altamente tecnologici nella cultura tribale dell’artigianato locale.  Questi simboli erano all’inizio modeste aggiunte ma e furono poi enfatizzati per un mercato di nicchia di collezionisti occidentali: sono usciti dal paese di origine proprio grazie agli occupanti, prima Russi, poi Statunitensi.

Il più grande archivio online di tappeti di guerra afgani è curato dall’artista di New York Kevin Sudeith

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Non hanno fatto in tempo a vederli i giovani occidentali che percorsero l’Hippie Trail, il percorso che portava dall’Europa all’India,  perché proprio a causa della guerra l’Afghanistan chiuse il passaggio verso oriente.

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Ai “Tappeti da guerra” o  “War Rugs” si sono dedicate mostre. In Italia una al  Mart di Rovereto nel 2014.

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Storia della nostra scomparsa. Le “comfort women” raccontate da Jing-Jing Lee

Era iniziato tutto con la sua nascita, col nome che le avevano dato. Poi con l’educazione che aveva avuto. E infine, dopo la guerra e l’orrore di quegli anni che avrebbero dovuto essere i migliori della sua vita, le parole di sua madre e la vergogna che si era imposta da sola – oltre a quella impostale dalla famiglia e dal mondo – l’avevano condannata al silenzio, relegandola nell’ombra per il resto dei suoi giorni.

Quando i Giapponesi occuparono Singapore durante la Seconda guerra mondiale, migliaia di coreane, cinesi e filippine furono ridotte a schiave sessuali. Una vicenda rimossa, oggi raccontata nel romanzo di Jing-Jing Lee Storia della nostra scomparsa.

Un romanzo scomodo, doloroso, scritto nonostante tutto con grazia: per scriverlo l’autrice – anche lei nata e cresciuta a Singapore – ha dovuto scavare nella propria storia familiare e riportare alla luce la memoria tormentata di un’intera generazione di donne destinate all’oblio.

Wang Di, protagonista di questo intenso ed evocativo romanzoè nata da una famiglia tradizionale cinese e considerata fin dal primo giorno non come una persona a sé stante, con una propria identità, ma come un significante di altre, migliori cose a venire. Il suo nome in cinese significa letteralmente “non vedo l’ora di avere un fratello minore”.

Quando i giapponesi occupano Singapore nel 1942, la diciassettenne Wang Di viene portata via dalla sua famiglia, ribattezzata Fujiko e imprigionata in un bungalow bianco e nero con altre ragazze. Lì, sono costrette a prestare servizio sessuale ai soldati giapponesi ogni giorno.

Nel 2000, Wang Di ha 75 anni. Suo marito, che lei chiamava il Vecchio a causa della loro differenza di età di 18 anni, è appena morto. Ha dovuto lasciare l’appartamento che divideva con lui da 40 anni e trasferirsi in una nuova tenuta, dove i vicini la ostracizzano perché raccoglie cartone per vivere. Wang Di ha faticato a raccontare al marito quello che le è successo nella casa in bianco e nero, così come ha faticato ad ascoltare la storia di quello che gli è successo durante la guerra. Ora, piena di rimpianti per non aver raccontato queste storie, cerca di conoscere il passato di suo marito.

La persona con le risposte potrebbe essere Kevin, un dodicenne occhialuto che viene maltrattato a scuola e i cui genitori sono troppo occupati a sbarcare il lunario. La nonna gli ha fatto una confessione confusa sul letto di morte. Armato del suo vecchio registratore e di una limitata conoscenza del cinese, egli si mette a districare un mistero vecchio di decenni su un bambino perduto e su un orribile crimine di guerra.

Per chi sopravvive, il ritorno alla società è un altro inferno. Wang Di racconta la storia di una ragazza che si è fatta strada verso casa, solo per far sì che i suoi genitori “proclamassero di non averla mai vista, di non averla mai conosciuta o di non aver pronunciato il suo nome in vita loro”.

Il tema delle “donne di conforto” è ancora oggi molto scottante: la Corea del Sud continua a spingere per il riconoscimento e la restituzione dei sopravvissuti, mentre il Giappone sostiene di essersi scusato a sufficienza.

Nel documentario Because we were beautiful il regista Frank van Osch ha raccolto testimonianze di alcune delle comfort women ancora in vita e nel sito del fotografo

Jan Banning sono visibili foto e brevi biografie di alcune di loro.

Il fenomeno delle “comfort station” ebbe fine un anno dopo il termine della seconda guerra mondiale, nel 1946. Le donne che riuscirono ad uscirne vive, si stima circa il 25% sul totale delle internate, portarono con sé il trauma e lo sdegno per il resto della propria esistenza. Le stime più caute conteggiano in 50.000 le Comfort Woman, mentre altre parlano di un totale di 300 o anche 400.000 donne internate.

Nel 2007 il Primo Ministro Shinzo Abe ha dichiarato che non esistono prove certe della violenza esercitata per 15 anni sulle donne dall’esercito nipponico. Le 36 comfort women ancora in vita, supportate da associazioni antiviolenza, lottano per difendere la memoria e sensibilizzare l’opinione pubblica .

Nel 2016 è uscito il film Spirits’ Homecoming, che ripercorre le vicende di alcune vittime ed è stato ispirato al regista dal dipinto Burning Virgins di Kang Il-Chul. Stando alle testimonianze delle sopravissute le ragazze malate venivano portate a forni crematori dove venivano bruciate dopo essere state uccise.

Le “comfort women” sono supportate da molte associazioni di denuncia delle violazioni dei diritti umani. Le loro azioni hanno portato ad inasprimenti dei rapporti tra il Giappone e il Sud Corea. In particolare il posizionamento della Sanyeosang davanti all’ambasciata giapponese.

Quella che era una storia di scomparsa e di un silenzio è ora anche una storia di memoria.

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Non ho un tailleur, non l’ho mai avuto: sono una donna che non conta. Legge!

L’Autunno è già qui e torna il tailleur. Lo dice la moda. Ancora? penso io, Ma se n’era andato?a me pare di no, ripassando le proposte delle passate stagioni. Se sì, avevo sperato fosse  per sempre. Da punto di vista sociale e quindi giornalistico forse la naturale conseguenza della fine del lockdown, del ritorno alla si fa per dire normalità. Rimane da capire cosa te ne fai se lavori in smart… E poi: bisogna averlo per far carriera o quando l’hai fatta? Se poi non la fai che ne fai? Quando l’hai fatta, devi continuare a portarlo?

Io non ho mai avuto un tailleur. L’ho sempre e solo associato al lavoro, tipo divisa:  lo trovo un fastidio, per me inutile e costoso fastidio. Non sopporterei di stare un giorno interno con camicia e gonna aderente, tacco alto, trucco parrucco e borsa cartella. Se è poco ammiccante è deprimente. A meno che non sia di Armani, o di Chanel, ma ne compri uno e deve essere per sempre. Insomma, non fa per me. E soprattutto non avrei saputo che farmene. Anche se lavoro in un ufficio. In una biblioteca per l’esattezza. In biblioteca, ma anche in molti altri luoghi,  le donne non fanno carriera, almeno così è capitato a me, quindi perchè comprarselo? Per anni dai bambini sono stata considerata “la moglie del Bibliotecario”, visto che la Biblioteca si trova in un palazzo signorile e ha conservato le caratteristiche dell’appartamento privato.  Tanto vale stare comode e così ho fatto sempre, anche ora, che il collega è andato in pensione e rischio di  essere considerata vedova. Per chi non lo ha conosciuto,  “single” per non dire zitella, che oggi non si usa più.

L’ho comunque sempre sinceramente detestato.  Preferisco mettere insieme pezzi, comprati un po’ qua e un po’ là, da mescolare in infinite possibilità. Alla fine vien fuori che non hai seguito nessuna moda in particolare, non sei datata anche se hai qualche pezzo originale che, vista l’età, fa schiattare le fanatiche del vintage. Non mi piace come l’arredamento in serie, ad esempio, a costo di tenere la lampadina appesa ad un filo sino a che non trovo il lampadario che mi piace. Anche metter su casa è un mettere insieme posti che hai visto, cose che ti sono piaciute, accostamenti originali e via così.

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Sarà anche per questo che gli ultimi saldi non mi sono piaciuti. Mi sono sembrati scarti,  avanzi, non resti che ha un valore positivo: pensa all’archeologia!

Sarà anche perchè di cose negli anni, io, in tante, ne abbiamo comprate più di quanto fosse necessario. Sempre inseguendo uno stile, ovviamente, mai una moda. Anche di vita naturalmente. A volte mi chiedo se  proprio il lavorare in quello che era un appartamento non abbia contribuito ad aumentare il mio desiderio di essere a casa, la mia, a fare in parte quello che faccio qui: studiare, leggere, condividere. Ad esempio Bubbly on Your Budget: Live Luxuriously with what you have di Marjorie Hillis. Pubblicato nel 1937, è stato ristampato e continua ad elargire preziosi consigli, soprattutto su come “costruirsi” un abbigliamento creativo,  rovistando nel tuo armadio, che non sia fuori moda, e che parli di te.

Una cosa ci sarebbe che  mi piace della donna in carriera, soprattutto della Sig.ra Lagard, la numero uno del Fondo Monetario Internazionale: le borse di Hermes

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se non non fosse che le mette in bella mostra sulla scrivania mentre ci spiega come e perchè dovremmo tirar la cinghia.

Io  ad esempio lo so che nel mio destino non c’è di essere la numero una, la prima, non sgomito neppure ai buffet: anzi, d’istinto, quando vedo che butta così faccio un passo indietro e spesso me ne vado. Anche perchè, come ho già detto detesto gli avanzi, anche in cucina.

E poi la vita è un continuo su e giù, guarda ora che di lavoro non ce n’è… come si fa a sapere quanto dura il tempo di tailleur? Per l’inverno meglio un maglione caldo, morbido, avvolgente e scarpe comode. E poi vuoi mettere? capitasse una ma anche  solo una volta l’occasione per fare una volata …

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Cachemire rosso. Il filo che unisce la Mongolia all’Italia è fatto anche di dolore e sopraffazione.

Bolormaa è una giovane ragazza mongola che vive da nomade insieme alla sua famiglia nella parte cinese della regione.

Il dzuz un fenomeno climatico caratterizzato da un’ondata di freddo estremo dopo un’estate torrida, ha decimato il loro gregge.

I suoi fratelli convincono il padre a vendere ad un cinese senza scrupoli quello che rimane e a trasferirsi ad Ordos dove vivono in case a di cemento e lavorano in una fabbrica di abbigliamento senza vedere il cielo per ore e ore.

Ordos , il cui nome significa “la città dai molti palazzi”: è una città costruita dal governo cinese per ricollocare e “riconvertire” pastori, allevatori e contadini offrendo loro condizioni di vita apparentemente più favorevoli ma privandoli di fatto di molta libertà e diritti. E’ considerata una città fantasma perché il progetto ha tempi di realizzazione molto lunghi : ricollocare 250 milioni di persone nell’arco di 20 anni.

Su Ordos è stato realizzato il documentario The land of many places che racconta la storia di due personaggi: un funzionario del governo, il cui compito è quello di convincere i contadini che le loro condizioni di vita miglioreranno se accetteranno di trasferirsi in città, e un contadino, che vive in uno dei pochi villaggi rimasti nella regione e sperimenta i numerosi tentativi del governo di farlo trasferire in città.

Il padre lascia a Bolormaa il prodotto della tosatura delle prime cinque capre, quella lana da cui si ricava il cachemire famoso in tutto il mondo. La lavora, e coi i fiori e i rizomi che ha raccolto ottiene un colore rosso talmente intenso profondo, violento se paragonato alla morbidezza del chachemire, che le trappa lacrime di orgoglio. Tinge la lana e con il piccolo telaio ereditato dalla nonna comincia a confezionare una maglia che proverà a vendere.

Al mercato mongolo di Ordos Alessandra, italiana, proprietaria insieme a Giulia di un negozio di maglieria di puro cachemire a Firenze viene attratta immediatamente dal quel rosso che sanguina passione. Lo acquista al doppio del prezzo e consegna a Bolormaa un biglietto da visita insieme a l’offerta di offrirle un lavoro in Italia.

Da quel momento la vita della giovane mongola cambierà sempre. Accadrà in modo doloroso, pericoloso e avventuroso. Attraverserà la Mongolia cinese, quella libera, la Russia per arrivare in Italia. Lo farà con ogni mezzo, sempre con un’attenzione e uno sguardo poetico sui paesaggi che sfileranno davanti ai suoi occhi e sulle persone che incontrerà. E sarà proprio quel filo rosso a mantenere in lei viva la speranza. Anche quando tutto sembra perduto, quando l’amica cinese che con lei ha intrapreso quel viaggio morirà nell’incendio di un laboratorio: 7 vittime, come accaduto a Prato meno di 10 anni fa.

Interessante in questo romanzo è il modo in cui, con un linguaggio semplice, immediato,e poetico vengono affrontati temi essenziali e universali: lo sfruttamento e il deterioramento dell’ambiente, le conseguenze dell’industrializzazione e del profitto eccessivo, lo sfruttamento disumano della forza lavoro, i misfatti dei contrabbandieri, degli “schiavisti”. Mondi opposti che si incontrano, trame di vite che si si perdono intrecciano in modi improbabili e imprevedibili. Il tutto narrato con grande umanità e passione, dedicato dall’Autrice ai dannati della terra, agli schiavi della fame.

La Mongolia sta faticando per migliorare i profitti generati dalla sua industria di cashmere, soprattutto perché la maggior parte delle lavorazioni sono realizzate in modo più economico oltre confine, in Cina. Per questo ha annunciato l’apertura di una nuova a nuova piattaforma online per gli acquisti globali tramite la cinese Bohai. La piattaforma online consente alle fabbriche di acquistare il cashmere mongolo direttamente attraverso la Borsa di Bohai, senza inviare i loro rappresentanti in Mongolia. La Mongolia ha un totale stimato di 27 milioni di capre e una capacità di produzione annuale di cashmere di 9.400 tonnellate. Fornisce circa il 40% di cashmere grezzo mondiale

Dello sfruttamento e dei diritti dei lavoratori negati dalla Cina ho già parlato qui .

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Il cigno meccanico d’argento e altre meraviglie…

Alle undici i ballerini vennero convocati per la cena da un cigno d’argento. L’automa era stato costruito da un orologiaio e gioielliere di Parigi, ansioso di mostrare un talento così incredibile da collocarsi sul confine tra meccanica e magia. Un valletto si infilò un cappello di broccato d’argento in tinta e girò la manopola: al che un cigno a grandezza naturale prese vita. Le migliaia di piume d’argento si arruffarono , il collo robusto si distese e la testa si girò…Tintinnò un accordo e nell’acqua a specchio il cigno scatto verso un minuscolo pesciolino. Lo inghiottì e rimase immobile. La musica andò scemando e si spense…

Cit. I Goldbaum, Natasha Solomons

E’ impossibile rimanere impassibili difronte a tanta meraviglia. Ed e’ facile credere che si tratti di un espediente letterario. Invece…

Il Cigno d’Argento è un automa del XVIII Secolo, conservato al museo Bowes interno al Castello Barnard, in Inghilterra. Fu acquistato dal fondatore del museo, John Bowes, da un gioielliere parigino nel 1872. Il cigno è a grandezza naturale e viene azionato da un dispositivo ad orologeria che fa muovere l’automa e aziona un carillon. L’animale meccanico si trova in un torrente realizzato con canne in vetro e circondato da foglie d’argento, insieme ad alcuni pesci e rane, sempre in argento, che nuotano nella corrente. Quando viene azionato, le bacchette elicoidali di vetro ruotano, dando l’illusione che l’acqua scorra realmente sotto gli animali. Il cigno gira la testa da un lato all’altro e poi la abbassa, addentando un piccolo pesciolino d’argento. La testa del cigno torna poi in posizione verticale e la performance, della durata di 32 secondi, termina.

John e Joséphine Bowes erano appassionati collezionisti. Videro per la prima volta il cigno all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1867, dove il gioielliere Harry Emanuel lo espose.

Anche lo scrittore americano Mark Twain vide il Cigno d’Argento alla mostra di Parigi nel 1867 e lo descrisse nel suo libro The Innocents Abroad:

Guardai il Cigno d’Argento, che aveva una viva grazia nei movimenti e una vivida intelligenza nei propri occhi, lo guardai nuotare con indifferenza come fosse nato in una palude, invece che in una gioielleria. Lo guardai cogliere un pesce d’Argento da sotto l’acqua, rialzare la testa e compiere quegli elaborati movimenti fatti dai cigni per inghiottire i pesci…

Joséphine, il cui padre era un orologiaio, sembra aver avuto una predilezione per gli automi. Mentre il Cigno d’Argento è il più noto, ci sono un certo numero di altri tra cui giocattoli meccanici, carillon e orologi con movimenti di automi al Bowes Museum. Alcuni esempi includono un orologio leone dell’inizio del XVII secolo realizzato in Germania, con gli occhi girevoli, e un topo in oro meccanico, circa 1810, probabilmente svizzero.

A volte per i ricevimenti più sontuosi venivano liberati nel salone centinaia di cardellini che frullavano e svolazzano sopra le teste degli invitati…

Non ho trovato evidenze storiche che confermino l’uso dei cardellini durante le feste, erano però molto frequenti nelle case dei collezionisti di storia naturale, su tutti John Gould, ornitologo e autore di 41 libri e di 2999 tavole litografate e dipinte a mano,che donò al British Museum la sua collezione di 5,378 cardellini.

Che in epoca vittoriana e in quella successiva, la Gilded Age, fossero un elemento decorativo molto in voga è però certo. Gli uccelli erano, naturalmente, una parte fondamentale della moda per i cappelli , tanto che alla fine del XIX secolo il commercio del piumaggio decimò le popolazioni di uccelli. Su tutti l’uccello del Paradiso della Nuova Guinea.

Ma di questa consuetudine, dell’uso di uccellini durante le feste intendo, avevo già letto in un libro. Precisamente in L’ereditiera americana di Daisy Goodwin, a proposito dei colibrì. Il libro è ispirato alla vita di Consuelo Vanderbilt, e ne avevo già scritto qui scrivendo di altre eccentricità…

Bertha era in cucina con l’uomo dei colibrì. “di che colore sono, questa volta?” chiese Bertha.

“Mi hanno ordinato di farli tutti d’oro. Non è stato facile. Ai colibrì non piace essere dipinti. Alcuni si sono lasciati andare, si sono dati per vinti, e hanno smesso di volare”.

Bertha si inginocchiò e tirò su il panno. Vide dei piccoli bagliori che si muovevano nell’oscurità. Quando tutti gli ospiti sarebbero stati ancora seduti a tavola, a mezzanotte, li avrebbero liberati nel giardino d’inverno, come una fontana di zampilli dorati.

Sarebbero stati l’unico argomento di conversazione per una decina di minuti. I giovanotti avrebbero cercato di catturarli per offrirli in dono alle fanciulle che corteggiavano. Le altre dame di società del circondario avrebbero pensato, non senza un pizzico di malevolenza, che Nancy Cash avrebbe fatto qualsiasi cosa per impressionare i suoi ospiti e il mattino dopo, le cameriere avrebbero spazzato via i corpicini dorati facendone un unico mucchietto.

Crudele vero? sì, ma i colibrì ebbero la loro vendetta…

” E così non devo far altro che premere questa valvola di gomma e il marchingegno si accenderà di luce?”

“Esattamente, signora Cash. Occorre solo afferrare la valvola con presa salda e tutte le luci scintilleranno come un vero cielo stellato. Se posso permettermi, vi ricordo che l’effetto avrà breve durata”.

Ma la signora Cash non stava ascoltando. Non era avvezza a darsi dei limiti. Era ora. Afferrò la valvola di gomma e udì un lieve crepitio mentre la luce scorreva attraverso i centoventi piccoli bulbi luminosi cuciti sul suo abito e gli altri cinquanta incastonati nel diadema. Era come se nella Sala degli Specchi avessero allestito dei fuochi d’artificio.

Ci fu uno squarcio nell’aria e un sospiro di sorpresa si diffuse rapidamente n tutta la terrazza. I piccoli bulbi incandescenti lanciavano ombre affilate lungo i contorni del viso della signora Cash. Una di loro si avviluppò intorno alla stella di diamanti che aveva nei capelli, in un solo istante fu lambita dal fuoco. La sua espressione era feroce quanto le fiamme che lì a poco l’avrebbero avvolta…

Il gong suonò la mezzanotte. Nel giardino d’inverno l’uomo del colibrì tolse il velo alla gabbia. Aprì la porta e poi restò li accanto ad osservare i suoi uccelli che si sparpagliavano come lustrini sul manto vellutato della notte scura. Ma non c’era nessuno a vederli. E dire che erano così belli…

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Un mondo parallelo solido quanto il mondo reale, se non di più…

New York, Central Park, una donna elegante: «Quanto adoro l’Europa, l’antica Grecia, Socrate, Platone, wow, e i Romani, così sensuali, Catullo, l’Italia, Dante a Firenze, meraviglioso, il Rinascimento, l’Inghilterra, Shakespeare! Tutti quei personaggi che si guardano dentro, e Dickens, ah, Dickens, il vecchio adorabile Pickwick, e Parigi, Baudelaire, il poeta solo nella folla elettrizzato dai passanti, e i russi, Tolstoj, Dostoevskij, tutta quella miseria, Čechov, con la sua eterna malinconia del troppo tardi. Gli irlandesi poi! Quel Leopold Bloom che vaga per Dublino in un solo giorno come una specie di Ulisse – tutto è sempre legato all’antichità!» L’uomo sulla panchina fissa il suo iPhone. La donna continua: «A proposito, c’è una super mostra di impressionisti francesi al MoMA, ti va?» L’uomo alza lo sguardo: «Lo sai che non sopporto il trash europeo.»

Non ricordo come sono arrivata a Trash Europeo: quattrordici modi per ringraziare mio padre di Ulf Peter Hallberg, pubblicato da Iperborea, casa editrice fonte di inesauribili scoperte per me.

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Ma so che arrivò per me nel momento giusto, mi sento di dire…proprio mentre in una lettera aperta parlai di mio padre che non c’è più. Proprio mentre riscopro il piacere di annotare, ritagliare, incollare per consegnare a mio figlio, quando sarà il momento, l’insieme dei miei pensieri, interessi, vagheggiamenti e viaggi , biglietti di concerti, spettacoli teatrali, cartoline, fotografie, dediche, segnalibri  raccolti in decine di Moleskine, l’arcinoto “taccuino nero”. Una raccolta disomogea di bric-a-brac che dovrebbero “omogeinizzarsi” nel racconto della mia esistenza.

Immaturità perseguita tenacemente? Forse sì, più consapevolmente la volontà di trasmettergli la varietà del mondo, il piacere della scoperta, la bellezza del conoscere le grandi e le piccole cose della vita. E in un certo senso la libertà che non può convivere con il pensiero unico, con l’omologazione.

Era anche questo l’intento del padre dell’Autore che al figlio, trasferito in Germania, inviava buste con ritagli di giornali, foto, appunti per tenerlo collegato al paese d’origine, alla famiglia, al resto dell’Europa e della sua cultura. E da questi “suggerimenti” si dipartono stimoli per altre indagini, curiosità, esperienze. Nelle pagine sono inseriti vari “segnalibri”: brevi riflessioni del padre che altro non sono se non la sua filosofia che inducono a ragionare sull’esistenza, la conoscenza e  la morte.

È un mondo romanzesco quello che mio padre mi ha passato: tutte queste citazioni, indicazioni, personaggi e storie che ha lasciato. Le figure della sua collezione sono messaggeri. Sono come il riflesso di un romanzo sognato che ci unirà per sempre. Mi ha assegnato un nuovocompito. Ormai non devo più occuparmi di lui, né intrattenerlo al telefono, né stare ad ascoltare le sue sconclusionate associazioni di idee. Adesso devo tenere insieme tutto ciò che è nostro.

Provate a leggerne l’ncipit, per me è già bellissimo.

E a conclusione del libro una riflessione del genitore rivolta , mi sento di dire, più a se stesso che al figlio, destinatario di tanta bellezza:

Rendersi conto che, per quanto i risultati siano stati vani, la ricerca è stata di per sè la ricompensa. – La terre est si belle

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I Goldbaum, Elsie de Wolfe, e la ricerca della bellezza

Henri per il suo ventesimo compleanno aveva chiesto di poter disporre di alloggi privati e subito aveva incaricato Elsie de Wolfe di decorarli. Aveva sentito dire che che era riuscita a trasformare in cittadelle d’aria e luce gli appartamenti tutti mogano e velluti di Manhattan e voleva che facesse lo stesso per lui nel cuore di Parigi.

Cit. I Goldbaum, Natasha Solomons

Elsie de Wolfe nacque a New York nel 1865. Nella sua autobiografia si descriveva come “una bambina brutta” che viveva in “un’epoca brutta”.

Suo padre aveva un reddito ragionevole come medico, ma aveva dei debiti, e la famiglia dovette trasferirsi di frequente, abitando in una serie di case in pietra arenaria, uno stile di casa che Elsie trovava orribile e oscuro. Il suo primo ricordo è quello di essere tornata a casa un giorno per scoprire che sua madre aveva ridecorato il salotto con un colore sgargiante; quando lo vide, “qualcosa di terribile che tagliava come un coltello” le si avvicinò al petto, e cadde sul pavimento facendo i capricci, scalciando e urlando. L’infatuazione per l’Europa iniziò quando era adolescente. I suoi genitori la mandarono da una zia e uno zio ben piazzati in Scozia per “finire” e poi in Inghilterra, dove fu presentata alla Regina. Quando tornò a New York, qualche anno dopo, si era già fatta molti amici nel circuito mondano, e cominciò a recitare come attrice dilettante. Dopo aver avuto un certo successo nei circoli teatrali amatoriali di New York, divenne un’attrice professionista e interpretò vari ruoli storici e comici leggeri per tutti gli anni Novanta del XIX secolo. Le sue apparizioni, tuttavia, furono elogiate più per gli abiti che indossava che per quello che faceva, dato che la de Wolfe godeva dell’insolito accordo con il suo produttore di poter scegliere i propri guardaroba – solitamente abiti di alta moda che ordinava a Parigi da Paquin, Doucet, o Worth.

Wolfe decise nel 1905 di diventare una decoratrice professionista. Nello stesso anno un gruppo di potenti donne newyorkesi, appartenenti alle famiglie Astor, Harriman, Morgan, Whitney e Marbury, organizzò il primo club della città esclusivamente femminile, il Colony Club. Il suo bel quartier generale a Madison e 31esima Strada fu progettato da Stanford White e ad Elsie fu commissionato l’arredamento.

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Quando il Colony aprì nel 1907, gli interni si affermarono da un giorno all’altro. Invece di imitare l’atmosfera pesante dei club maschili, la de Wolfe introdusse uno stile casual e femminile con un’abbondanza di chintz smaltato (che la rese subito “la Signora del Chintz”), pavimenti piastrellati, drappeggi leggeri, pareti chiare, sedie di vimini, e la prima delle sue numerose stanze tralicciate. La reazione stupita dei membri ovviamente le portò fama e conseguentemente numerose consulenze.

Nei sei anni successivi, fino all’incontro con Henry Clay Frick, creò altri club, diverse case private, sia sulla costa orientale che in California, una casa modello (con Ogden Codman Jr.), palchi d’opera e un dormitorio al Barnard College; ha anche tenuto conferenze e pubblicato il suo libro più influente, The House in Good Taste. A quel tempo aveva una serie di uffici e uno showroom sulla Fifth Avenue, con uno staff di segretarie, contabili e assistenti. Aveva anche degli imitatori.

Tra i clienti illustri di de Wolfe c’erano Amy Vanderbilt, Anne Morgan, il Duca e la Duchessa di Windsor, Henry Clay e Adelaide Frick.

Preferendo uno schema di decorazione più luminoso rispetto a quello che andava di moda in epoca vittoriana, ha contribuito a convertire gli interni con tendaggi scuri e pesanti e arredi troppo decorati in stanze leggere, morbide e più femminili. Utilizzò gli specchi, che illuminavano e ampliavano gli spazi abitativi, riportò alla moda mobili dipinti di bianco o di colori pallidi, e assecondò il suo gusto per la cineseria, il chintz, le strisce verdi e bianche, il vimini, gli effetti trompe-l’oeil nella carta da parati e i motivi a traliccio, suggerendo il fascino del giardino. Come sosteneva de Wolfe: “Ho aperto le porte e le finestre dell’America, e ho lasciato entrare l’aria e il sole”. La sua ispirazione è venuta dall’arte, dalla letteratura, dal teatro e dalla moda francese e inglese del XVIII secolo.

Greta non aveva mai visto nulla di simile. Aprendo la porta le era sembrato di essere passata da mezzanotte al mattino. Luce elettrica e candele illuminavano tutto; specchi antichi riflettevano costellazioni di fiammelle, e le grandi stanze parevano sconfinate. I pesanti tappeti rosso scuro – non importava che fossero esemplari persiani del XVIII secolo – erano spariti, i pavimenti di legno rasati e impregnati di profumato olio di mandorle. Le imposte erano state spalancate e davanti alle finestre fluttuavano tende leggerissime. Le sembrava di essere salpata su una barca a vela che solcava i cieli di Parigi.

Cit. I Goldbaum, Natasha Solomons

Il gusto di De Wolfe era anche pratico: eliminò nei suoi progetti il disordine che occupava le case vittoriane, permettendo alle persone di intrattenere più ospiti comodamente. Rese popolari le chaises longue e le tappezzerie a stampa animale.

Nel 1926 il New York Times descriveva de Wolfe come “una delle donne più conosciute della vita sociale newyorkese” e nel 1935 come “prominente nella società parigina”.

Nel 1935 gli esperti parigini la definirono la donna meglio vestita del mondo, notando che indossava ciò che le si addiceva di più, indipendentemente dalla moda.

De Wolfe aveva ricamato dei cuscini di taffetà con il motto “Never complain, never explain” – “Mai lamentarsi, mai spiegare”. Quando vide per la prima volta il Partenone, De Wolfe esclamò: “È beige – il mio colore!

Nella sua casa in Francia, la Villa Trianon, aveva un cimitero per cani in cui ogni lapide recitava: “Quello che amavo di più”.

Villa Trianon

All’inizio del 1900,Elsie de Wolfe promosse una dieta semi-vegetariana che consisteva di pesce fresco, ostriche, crostacei e verdure. Si descriveva come un “antisarmacofago”, né mangiatore di carne rossa né completamente vegetariano. Incoraggiava il giardinaggio e il consumo di verdure coltivate in casa e di cibo biologico. .

I suoi esercizi mattutini erano famosi. Nel suo libro di memorie, ha scritto che il suo regime quotidiano a 70 anni comprendeva lo yoga, stare in piedi sulla testa e camminare sulle mani. “Ho una regolare routine di esercizi fondata sul metodo Yogi”, ha detto Elsie, “introdotta da Anne Vanderbilt e da sua figlia, la principessa Murat.

Elsie morì a Versailles, in Francia. Cremata, le sue ceneri furono poste in una tomba comune al cimitero di Père Lachaise a Parigi.

Renderò bellissimo tutto ciò che mi circonda – di questo sarà fatta la mia vita.

Cit. Elsie De Wolf

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I Goldbaum di Natasha Solomons

A Vienna si dice che siano così ricchi e potenti che, nelle giornate uggiose, noleggino il sole perché brilli per loro…

Il libro è la storia di una famiglia di enormi ricchezze e potere, considerata “altro” perché ebrea.

E’ ispirata alle vicende dei Rotschild, simbolo di potere e speranza per gli stessi ebrei soprattutto quelli poveri e sottomessi dell’Europa Orientale. I Goldbaum sono loro stessi potenti ed hanno accumulato enormi ricchezze, ricchezze non tramandate ma accumulate grazie al lavoro e alle capacità. Benché tessano rapporti con le istituzioni a livello internazionale e di loro abbiano bisogno gli stessi governanti, vengono guardati con sospetto. I rampolli della Casa di Goldbaum conoscono i loro doveri: sposare altri Goldbaum e servire la famiglia.

E’ il 1911. La famiglia Goldbaum è una delle più ricche del mondo, con palazzi in tutta Europa, ma come ebrei e perpetui estranei sanno che la forza sta nella famiglia. Greta, la protagonista, all’inizio, ribelle e solitaria, desidera la libertà di vivere una vita diversa da quella di sua madre e delle altre donne Goldbaum, che sono principalmente mogli di grandi uomini e madri dei loro figli ma è costretta a passare dalla scintillante Vienna all’umida Inghilterra per sposare Albert, un lontano cugino. È la cosa più lontana da un incontro d’amore, ma Greta è rassegnata al suo destino. Almeno, questo è quello che vuole far credere ai suoi genitori. In realtà, Greta desidera qualcosa di più, ma sa che sarà praticamente impossibile forgiare la propria strada. Dopotutto, è suo dovere vedere che il potere e l’influenza della Goldbaum continuano a crescere, e quale modo migliore per farlo che unire due rami della famiglia insieme nel matrimonio?

A Temple Court, dove si trasferisce, la ragazza si sente estranea persino a se stessa: la nuova famiglia la tratta con rispetto, la servitù con deferenza e Albert è cortese e sollecito ma tra i due giovani si instaura una gelida, sottile antipatia. Al punto che Lady Goldbaum, la madre di Albert, decide di donare alla ragazza un centinaio di acri come dono di nozze, un giardino dove sentirsi finalmente libera da ogni costrizione.

La sua lotta per ottenere la migliore versione possibile di se stessa è piena di passi falsi, ma alla fine l’amore che ha sognato prenderà forma. Non tutto va come dovrebbe invece per altri membri della famiglia: giocano d’azzardo sperperando capitali, e si innamorano delle persone sbagliate mentre la guerra incombe. Diventa presto evidente che Greta e Albert dovranno collaborare se hanno qualche speranza di sopravvivere alla guerra imminente.

Nel frattempo, il fratello di Greta, Otto, parte in guerra per combattere per l’Austria. Lui e Greta sono sempre stati vicini, ma ora sono su fronti opposti della guerra, e questo provoca una frattura irreparabile nel loro rapporto, qualcosa che ferisce profondamente Greta.

Mentre vengono narrate le vicende personali dei membri della famiglia, vengono posti in primo piano interrogativi sul matrimonio, sui diritti delle donne e sulle scelte difficili dell’epoca, accanto ai temi sempre presenti della diaspora ebraica, in particolare l’esodo di massa degli ebrei dalla Russia. Mentre i Goldbaum sono in qualche modo isolati dalle forme più brutali di odio, si trovano di fronte a scelte morali difficili che minacciano di metterli dalla parte opposta della guerra.

Greta è da subito la vera protagonista del libro. Dapprima apparentemente viziata e capricciosa dimostrerà presto un personaggio autentico, imperfetto e amabile.

«Poi aveva scoperto Jane Eyre. Oh, il brivido di fare la governante e dipendere unicamente da se stessa! I pericoli e la meraviglia di essere sola al mondo. Jane Eyre poteva anche essere una governante che sognava di diventare una sposa ma Greta Goldbaum era la sposa che sognava di diventare la governante»

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La borsa a rete per la spesa è la nuova It bag. Economica e sostenibile

Dimenticate la Kelly, la Birkin, la Jackie,  la 2.55, la Baguette, la Speedy etc…  La it-bag del momento è la borsina a rete che le nonne usavano per la spesa. Ha un’origine lontana, risale al XVII secolo e viene dalla Normandia, dove i contadini fabbricavano a mano le reti da pesca. Nel 1860 si organizzarono e fondarono la Filt  che è il marchio più noto in fatto di borse a rete, e molto altro naturalmente. Una borsa della spesa compatta e riutilizzabile, realizzata in cotone 100%, a rete, che si espande notevolmente per portare a casa dal mercato fasci di frutta, verdura e altri generi alimentari. In Italia è venduta da NicoleDesignStore anche on line.

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Se ne trovano comunque molte anche in Amazon di marche non iconiche ma comunque valide.

Le borse a rete o “avoska” in russo  fanno parte anche del bagaglio popolare dell’Unione Sovietica anche se giunsero in URSS dalla città di Žďár nad Sázavou, nella Repubblica Ceca, dove alla fine del ‘800 un industriale riconvertì le reti per capelli da lui brevettate con scarso successo in borse per la spesa aggiungendo i manici. Le borse della spesa fatte a mano erano fatte di filato di seta artificiale, tessute da donne che lavoravano a casa (questo era spesso il loro secondo lavoro) o utilizzavano il lavoro minorile. Le borse divennero rapidamente molto popolari grazie al loro basso prezzo, al peso leggero e alla compattezza. Vavřín Krčil ampliò presto la gamma di modelli, comprese le borse da portare al gomito o a spalla e le borse per l’attrezzatura sportiva.

Sono della sua ditta, la  Ceskasitovka , e borse a rete che compaiono nella campagna di Dolce & Gabbana del 2010 che ha come protagonista Madonna.

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Si diffusero velocemente in URSS dove i negozi non utilizzavano sporte o altro e potevano sopportare sino a 70 kg.

Il nome “avoska” deriva dall’avverbio russo авось, espressione di una vaga aspettativa di fortuna, tradotta in vari contesti come “non si sa mai”, “si spera”, ecc. Il termine ha avuto origine negli anni Trenta nel contesto della carenza di beni di consumo in Unione Sovietica, quando i cittadini potevano ottenere molti acquisti di base solo per un colpo di fortuna; la gente era solita portare sempre in tasca un avoska nel caso si presentassero occasioni favorevoli  L’origine esatta del termine rimane incerta, con diverse attribuzioni diverse.

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Nel 1970 un popolare comico sovietico, Arkady Raikin, spiegò che intorno al 1935 introdusse un personaggio, un uomo semplice con un sacco a rete tra le mani. Egli mostrava il sacco agli spettatori e diceva “ecco la mia borsa non si sa mai. Chissà se riuscirò a metterci dentro qualcosa”. Una degli scopi del suo lavoro era la ridicolizzazione della burocrazia sovietica e del sistema di vita. La sceneggiatura è attribuita a Vladimir Poliakov, anch’egli attivo durante l’epoca Staliniana.

Di avoska si parla anche in L’ottava vita (per Brilka)  dell’autrice georgiana Nino Hatischwili pubblicato da Marsilio, la  bellissima saga famigliare per lo più raccontata al femminile, epopea dell’URSS e dei paesi satellite nell’area Caucasica , nel periodo che va dalla Rivoluzione d’ottobre ai nostri giorni. Nel ricordare cosa significasse Unione Sovietica fa dire alla protagonista

Era le retine per la spesa delle nonne (ma quelle di certo le hanno tutte le nonne del mondo, chissà da dove vengono!).

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Che ne ignori l’origine mi pare strano, considerato che  in tutta la  Germania, dove si diffusero come in altre parti di Europa,  la “borsa a rete della nonna” è tornata di moda e  a Berlino dove Nino vive il Museo della DDR ha una importante collezione di Einkaufsnetz. Ed è a modo suo protagonista di questo breve filmato sulla vita moderna. Ma lei come Daria, una delle protagoniste del libro, non era ancora nata…

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Come Connie Gustafson divenne Holly…e fu Colazione da Tiffany

E’ andato ieri all’asta da Sotheby’s il dattiloscritto rivistato e corretto di Colazione da Tiffany, forse l’unico tra i manoscritti di Truman Capote, rimasto in mano a privati. Era considerato il “gioiello della corona”.  E’ stato aggiudicato per 378 mila sterline. Era stato acquistato ad una asta precedente, nel 2013 per 306 mila dollari da un miliardario Russo.  84 pagine con molte revisioni autografe a matita,   annotazioni,  cancellazioni meticolosamente cancellate, correzioni ortografiche. E una non irrilevante: il nome della protagonista “Connie Gustafson” più plausibile  per una giovane sposa di Tulip, Texas, sostituito da quello di “Holly Gholithly“, più aderente al personaggio. “Holly” e cioè pungente se ci si avvicina troppo, #Golithly” leggero come il modo in cui tratta il mondo, la sua assenza di attaccamento ad un luogo e forse un accenno alla sua promiscuità.

Le bozze dimostrano come Capote ponesse al centro della sua arte lo stile, la ricerca della perfezione. Di sé stesso disse: “In sostanza mi considero uno stilista e gli stilisti possono diventare notoriamente ossessionati dalla collocazione di una virgola, il peso di un punto e virgola. Ossessioni di questo tipo, e il tempo in cui me ne occupo, mi irritano oltre ogni sopportazione”.

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Alcune delle revisioni finali di Capote mitigano anche il contenuto sessuale della storia: vengono cancellati alcuni scambi di opinioni e confessioni tra Holly e la sua coinquilina Mag Wildwood anche se il libro ovviamente rimane molto più esplicito rispetto al film del 1961.

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Questo dattiloscritto è il frutto di una lunga e complessa storia di composizione. Capote disse in un’intervista del 1957 di scrivere solitamente le sue prime bozze a mano, poi di trascriverle  a macchina  su carta gialla, un certo tipo di carta gialla molto speciale. Poi dopo averle messe da parte per un po’ le riprende, le rilegge cercando di farlo nella maniera più fredda possibile, poi dopo averle lette ad alta voce a qualche amico decide quali cambiamenti vuol fare e se vuole pubblicarlo o meno.  “Ma se tutto va bene, scrivo la versione finale su carta bianca e questo è tutto”: questo dattiloscritto, sebbene prevalentemente su carta gialla, è la versione finale “su carta bianca” inviata all’editore, sulla quale ha continuato a armeggiare creativamente con il suo testo fino all’ultimo momento possibile.

398Venne presentato alla Random House, editore di tutte le opere più importanti di Capote, nel maggio 1958, poco prima della partenza di Capote per un soggiorno in Grecia. Colazione da Tiffany era stata venduta a Harper’s Bazaar per il loro numero del luglio 1958, ma un cambio di redazione portò alla preoccupazione per il contenuto sessuale della storia, e la possibilità di offendere Tiffany’s, portò a una cancellazione dell’ultimo minuto. Un Capote offeso (“…Pubblicare di nuovo con loro? Perché non sputare sulla loro strada…”) vendette rapidamente la storia a Esquire, ma quando apparve sul numero di novembre Random House aveva già pubblicato il romanzo in forma di libro.

Colazione da Tiffany ebbe un successo immediato, sia dal punto di vista critico che commerciale. Il film del 1961 che seguì tolse molto al testo di Capote – riferimenti all’omosessualità, all’arresto di Holly, per non parlare delle corse di cavalli a Central Park – e introdusse molto altro – “Moon River”, gli abiti di Givenchy di Audrey Hebpurn e l’inevitabile finale hollywoodiano – ma mantenne più dello spirito dell’originale di quanto spesso viene riconosciuto. Capote stesso è stato molto critico nei confronti del film, ma raggiunse in entrambe le versioni della storia il suo obiettivo:

“Il motivo principale per cui ho scritto di Holly, a parte il fatto che mi piaceva così tanto, era che era un simbolo di tutte queste ragazze che vengono a New York  baciate dal sole per un momento e poi spariscono. Volevo salvare una ragazza da quell’anonimato”.

Con Connie Gustafson avrebbe ottenuto lo stesso risultato?

 

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